di Simone Bonatelli – Non sono un grande fruitore di serie TV, sono troppo incostante. Nonostante questo da qualche settimana con la mia compagna ho iniziato a vedere la serie “La legge di Lidia Poët”. Mi ha molto incuriosito il personaggio storico, realmente esistito, prima avvocata Italiana e protagonista di una lunga battaglia per poter ottenere il diritto ad esercitare nel foro.
[Attenzione allo spoiler] La richiesta di Lidia Poët di iscriversi all’albo degli avvocati venne prima accolta, poi impugnata dal procuratore, annullata in Corte d’Appello ed infine definitivamente respinta dalla Corte di Cassazione nel 1884.
Le motivazioni della Corte d’Appello e della Cassazione erano intrise dello spirito profondamente maschilista del tempo. La donna era considerata come portatrice di caratteristiche intrinseche che ne giustificavano l’esclusione dagli uffici pubblici:
“per la naturale riservatezza del sesso, la sua indole, la destinazione, la fisica cagionevolezza e in generale la deficienza in esso di adeguate forze intellettuali e morali, quali la fermezza, la severità, la costanza che avrebbero impedito alle donne di occuparsi di “affari pubblici”.
Molto mi ha poi colpito il passaggio in cui si dice:
“nella razza umana, esistono diversità e disuguaglianze naturali […] E dunque non si può chiedere al legislatore di rimuovere anche le differenze naturali insite nel genere umano”.
Anche senza cadere nell’errore di valutare con i parametri odierni qualcosa che si collocava in una società di fine Ottocento rimane evidentissima la natura profondamente ingiusta della decisione. A mio modo di vedere il nucleo centrale dell’ingiustizia viene dal fatto che Lidia Poët viene esclusa per qualcosa che “è” e non per qualcosa che fa o non fa.
Si tratta di un’esclusione su cui Lidia nulla può fare. Secondo i giudici l’essere donna ha come diretta conseguenza l’inadeguatezza agli uffici pubblici e nulla contano il percorso di studi, la preparazione e le capacità che possono essere messe alla prova.
L’ammissione o l’esclusione all’esercizio di una funzione pubblica è qualcosa che inevitabilmente si deve esercitare. Il punto sono i criteri che si adottano. Più nello specifico un criterio “giusto” ed “equo” di valutazione, sarà quello su cui il candidato abbia potere di cambiamento. Mentre profondamente ingiusti sono quei criteri non modificabili in alcun modo, criteri che non a caso definiamo negativamente come razzisti, sessisti, classisti ecc. ccc.
Guadando all’esercizio del diritto di voto come definiremmo i suffragi su base di censo, classe sociale o titolo di studio? Chiaramente ingiusti, soprattutto guardando al rapporto tra l’entità di questo diritto e le reale capacità di modificare il proprio stato per aderire al criterio di selezione.
Chiedere a chi vuole votare di comprendere a grandi linee i meccanismi alla base delle istituzioni per le quali sta scegliendo i rappresentanti, di saper rispondere ad alto livello sui contenuti di un testo della lunghezza di un articolo di giornale in cui si descrivano le scelte di un candidato o di una coalizione, sono criteri su cui chiunque con impegno e buona volontà può dimostrare una certa consapevolezza delle proprie scelte. Sarebbero quindi criteri di selezione degli elettori equi perchè hanno come oggetto di valutazione qualcosa su cui qualunque cittadino possa intervenire per essere artefice del proprio ruolo.
L’epistocrazia è la presa di coscienza che una democrazia senza consapevolezza e impegno dell’elettore per conoscere un poco del contesto in cui andranno prese scelte e decisioni è una democrazia fragile e perennemente esposta al rischio aberrazioni come quei regimi dove veri e propri autocrati esercitano il potere a prescindere utilizzando il voto come mera legittimazione di facciata.
Foto frame tratta dalla serie dedicata a Lidia Poet