Messina: Una classe politica a dir poco modesta e la regressione dell’istruzione scolastica rendono fuorviante il suffragio universale

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di Stefania Piazzo – Nel leggere la presentazione del libro “Abolire il suffragio universale”, di Giovanni Messina, si legge, testuale:
“Che la democrazia non stia vivendo la sua età dell’oro è sotto gli occhi di tutti. Anzi, la sensazione è che si proceda verso un inesorabile declino. Non si vota più per il migliore, ma per il meno peggio, e sempre più spesso il meno peggio è tanto simile al peggio che si fa pure fatica a distinguerlo”.
È una riflessione che di certo non fa a pugni con le richieste dell’epistocrazia, ovvero mettere in sicurezza la democrazia alzando il livello dell’asticella delle competenze, a partire dal cittadino elettore.


Professor Messina, lei ha scritto il suo libro dopo aver letto per caso Jason Brennan “Contro la democrazia”, con la sua critica sulla crisi del sistema di rappresentanza? Oppure ha maturato la sua convinzione osservando in modo “clinico” la politica di casa nostra?

“Non ho ancora letto il libro di Brennan, anche se l’ho comprato ed ho intenzione di leggerlo. Quando è uscito stavo raccogliendo gli appunti per scrivere questo libretto e dovendo trattare lo stesso argomento, ho preferito rinviarne la lettura. La mia critica al funzionamento della democrazia è il punto di arrivo di una lunga riflessione sull’involuzione che il dibattito politico ha avuto negli ultimi decenni, non solo in Italia. Dietro la stesura del libro vi è un sentimento che credo accomuni oggi molte persone, cioè l’amarezza per una politica sempre più basata su slogan e sempre più svuotata di contenuti, una politica nella quale non sembra esserci spazio per la discussione e l’onestà intellettuale. All’interno dei partiti prevale la logica del clan, mentre tra gli elettori quella del tifo: tutti presupposti che spianano la strada al trionfo della demagogia”.

Da dove occorre ripartire per ridare dignità alla rappresentanza politica e, prima ancora, all’educazione al civismo?

“L’intervento più efficace e che sempre ha favorito il progredire di qualsiasi comunità è l’istruzione. Più aumenta il livello medio di istruzione, più la comunità ne trae beneficio, non solo in termini di crescita economica, ma anche nella convivenza civile. In questa fase storica, invece, si ha la sensazione, forse più di una sensazione, che si proceda in direzione contraria, che il livello di istruzione vada regredendo, con tutto ciò che ne consegue”.

Ritiene che la scuola abbia responsabilità in questa deriva che possiamo tranquillamente in alcuni casi definire figlia di un analfabetismo funzionale?

“Certamente sì. La scuola dovrebbe essere il motore del progresso, il luogo nel quale la trasmissione del sapere getta le basi per il progredire del sapere. Sfortunatamente, negli ultimi decenni ha smarrito questo ruolo. Non per colpa di chi vi lavora, che spesso ci mette passione e dedizione, ma piuttosto per il prevalere di modelli pedagogici che hanno sempre più sminuito il valore della conoscenza. Si tratta di un processo che prescinde dall’orientamento politico dei vari ministri che si sono succeduti. A considerare il susseguirsi di “riforme” di questi ultimi venti anni (ce ne sono state cinque, quante cioè ve ne furono dalla nascita del Regno d’Italia alla fine del fascismo), sembra che a operare sia stata sempre la stessa mano. Nulla di sorprendente, poi, se da vari sondaggi viene fuori come percentuali rilevanti di giovani diplomati e laureati ignorino fatti importanti della storia recente, come la stagione del terrorismo, il delitto Moro o la caduta del Muro di Berlino. Si direbbe che la tanto attesa istruzione per tutti ci abbia traghettati nell’ignoranza di massa. E quando si sentono politici proporre l’estensione di voto ai sedicenni, viene da chiedersi se costoro confondano la politica col festival di Sanremo o con X Factor”.

I media. Informano o disinformano sulla crisi del sistema? Le sembra che il giornalismo svolga ancora un ruolo di “guardiano” della democrazia o sia diventato altro?

“Direi che è un guardiano piuttosto disattento. Non a caso occupa il 58° posto nel World Press Freedom Index. Nel giornalismo italiano oggi mi colpiscono due cose. La prima è che a giustificazione della parzialità dell’informazione, che a volte rasenta la disinformazione, non si possa nemmeno portare il fatto di essere in una dittatura o in un’autocrazia, bensì solo l’autocensura. La seconda è l’unanimità di voci che troviamo nei grandi quotidiani. Quella che un tempo si definiva la linea editoriale di un giornale, cosa legittima, rivolgendosi ogni giornale a un determinato pubblico o facendo riferimento a una determinata area politica, ha ceduto il posto a una disarmante uniformità. Oggi ogni quotidiano somiglia sempre più a un piccolo partito, accoglie soltanto opinioni che vanno in un’unica direzione, laddove un grande giornale dovrebbe essere un luogo di discussione aperto a punti di vista diversi”.

Se lei dovesse in poche parole mettere a confronto la “maggioranza” del consenso e la corrispettiva “minoranza”, vi troverebbe differenze sostanziali?

“Se parliamo della cosiddetta dialettica democratica che caratterizza le democrazie occidentali, non ne trovo molte, e comunque non di sostanziali. È vero che nel corso delle campagne elettorali sembrano scontrarsi due o più visioni del mondo tra loro inconciliabili, ma una volta passate le elezioni subentra una sorta di normalizzazione. Rimangono quelli che vengono chiamati temi di bandiera, spesso utilizzati in maniera strumentale e populistica per sopperire alla mancanza di un progetto politico”.

Dopo il suo libro è stato interpellato o chiamato in causa da chi fa politica o dal terzo settore per una riflessione corale?

“No, questa è la prima volta. D’altronde, non si tratta di un argomento molto affrontato dalla stampa e dalla politica. Anzi, spesso chi lo solleva corre il rischio di non essere preso molto sul serio.”

Lei ha fiducia in un ritorno ad una democrazia come quella che in un recente passato poteva contare su una maggiore preparazione politica e prepolitica dei nostri rappresentanti?

“Sulla base delle tendenze attuali, non sono molto ottimista. In questi ultimi decenni i modelli di riferimento sono profondamente cambiati. Se cinquant’anni fa la preparazione e il livello culturale costituivano dei titoli di merito, oggi a una larga fetta dell’opinione pubblica, a cominciare da quella che ha Facebook come unica fonte di documentazione, possono anche ispirare diffidenza”.

Prof. Messina, la crisi della democrazia, è globale. Molte democrazie sono in crisi in Europa e nel mondo. Perché?

“Che le democrazie siano in crisi e che le prospettive non volgano al meglio, mi pare evidente. I motivi probabilmente saranno molti e non facili da mettere a fuoco. Forse gli storici di domani potranno esprimere opinioni più ponderate rispetto a noi che siamo dentro quest’epoca. Se dovessi indicare un motivo, direi l’appiattimento culturale collettivo. Un’opinione pubblica poco preparata tende a farsi rappresentare da personaggi inadeguati e discutibili; un’opinione pubblica poco preparata non ha gli strumenti per proporre alternative. Il rischio, secondo me, è che le nostre democrazie vadano riducendosi a qualcosa di puramente formale, trasformandosi di fatto in oligarchie. Anzi, l’ex presidente americano Jimmy Carter, parlando del suo paese qualche anno fa, dava questa trasformazione già per avvenuta”.

Lei ritiene che i social abbiano responsabilità nel propagandare la convinzione che “uno vale uno” solo per il fatto di poter accedere ad una tastiera da pc o smartphone?

“Ahimè, credo proprio di sì. Questa “democratizzazione” della comunicazione ha prodotto un equivoco quanto mai deleterio: siccome l’analfabeta funzionale ha acquisito lo stesso diritto di esprimersi che ha lo scienziato, l’opinione dell’analfabeta funzionale vale quanto quella dello scienziato. Con tutte le conseguenze nefaste che ne derivano”.

I non elettori, gli astenuti, sono degli epistocratici o solo dei delusi, attratti da altro perché “tanto non cambia mai nulla”?

“La visione fatalista del “tanto non cambia mai nulla”, secondo me, appartiene a quelli che non vogliono “perdere tempo” a interessarsi degli affari pubblici. Se tanto non cambia nulla, non dipende da te e quindi tu non hai responsabilità. Sono quelli che votano come capita e sono proprio la causa per cui non cambia nulla o cambia in peggio. Poi c’è un bacino di delusi o scoraggiati di fronte all’oggettiva modesta offerta delle varie forze politiche. Questo è il bacino nel quale collocherei gli epistocratici, la maggior parte dei quali forse lo è solo in potenza. Nel senso che a portare il ragionamento alle estreme conseguenze, cioè al fatto che il funzionamento della democrazia andrebbe in qualche modo regolamentato, li trattiene la convinzione secondo cui se la democrazia è sottoposta a dei limiti non è più democrazia. In realtà, per quanto consolidata essa sia, si tratta di un luogo comune. La democrazia è autentica e non solo formale solo se chi esercita il voto è consapevole degli effetti di tale esercizio”.

Come potrebbero essere i criteri per valutare la preparazione di un elettore e di un candidato alle elezioni?

“I criteri potrebbero essere molteplici. In via teorica, chi vuole interessarsi alla cosa pubblica, sia in qualità di elettore sia in qualità di eleggibile, dovrebbe avere cognizione di come funziona la gestione della cosa pubblica. Sapere di organizzazione dello Stato, politica economica, relazioni internazionali, questioni sociali, ecc. Oltre a poter vantare una condotta irreprensibile. Personalmente, non darei o revocherei la qualità di elettore a qualcuno colto a vendersi il voto o ad un amministratore che dà appalti a chi gli offre di più, secondo la stessa logica per cui un taglieggiatore non viene ammesso nella polizia. Prima di arrivare a questo punto, però, si dovrebbe superare quell’idea che per certi versi somiglia a un pregiudizio e per altri a un alibi. Quando si parla di valutare l’idoneità a essere elettore o candidato, infatti, l’obiezione più frequente riguarda la difficoltà di tale valutazione. Si afferma che ci sarebbe comunque un margine di errore e di arbitrio nel fissare dei paletti e nello stabilire chi avrebbe i titoli per fissarli. Si pretende, in sostanza, che bisognerebbe escogitare un metodo oggettivo, infallibile, perfetto. Ora, è chiaro che se questo ragionamento si dovesse estendere ad altri ambiti, non funzionerebbe nulla, perché in ogni concorso, in ogni valutazione e in ogni test c’è sempre un margine di errore. Allora si possono escogitare molti criteri per valutare la preparazione di un elettore o di un candidato, ma accettando il fatto che per quanto oggettivi possano essere, ogni criterio e ogni metodo di selezione avranno un margine di fallibilità e di imperfezione, come qualsiasi altra attività umana”.

Stefania Piazzo

Stefania Piazzo è una boomer del 1964, è giornalista professionista. Ha diretto diverse testate nazionali. Ha una profonda passione per gli animali. Educatore cinofilo, collabora con la Federazione nazionale dell'Ordine dei veterinari, ha fatto parte della prima task force del ministero della Salute per il benessere animale. Premio Oipa-Segretariato sociale Rai-Comune Roma, Premio internazionale San Rocco di Camogli, Premio San Francesco Comune Genova-Esercito Italiano, Premio Garante Comune Milano e altri riconoscimenti. Ha collaborato con l'Izs di Lombardia-E.R, Centro di referenza per i metodi alternativi. Ha due beagle e un gatto.

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