Stop agli inglesismi per legge? Non basta

3 minuti di lettura

di Stefania Piazzo – Ultimamente sono impegnata in una serie di incontri in cui i vicini di tavolo o di call, ovvero in videocollegamento, utilizzano solo termini tecnici inglesi di marketing per illustrare le cose da farsi. Sono più fighi di me.

Confesso il disagio. Profondo. Ma non solo perché arrivo dal giornalismo di un po’ di decenni fa in cui la programmazione era il “timone”, il disegno della costruzione di una pagina con le sue gerarchie era il “menabò”… ma perché spesso e volentieri la terminologia tecnica straniera gonfia le affermazioni al punto da farle apparire di per sè sostanza.

I contenuti, alla fine, quelli, beh, li devi fare tu. In italiano. Possibilmente usando anche i termini inglesi perché l’evento è internazionale. Faccio questa debita premessa perché il tema che oggi fa discutere è l’uscita di un esponente di un partito di governo che vorrebbe tirare una riga sugli anglicismi e riportare il baricentro sul lessico di madre patria.

Le reazioni non sono mancate. Al Corriere della Sera afferma: “I cittadini hanno diritto alla comprensione. Se non c’è, non c’è democrazia. Secondo: è evidente che i processi di globalizzazione mettono a rischio, quasi ovunque, le lingue madri“.

E’ Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, che parla.

All’onorevole Rampelli, ma a lui come a tutti gli altri, sia gli esperti che per esprimere un concetto usano i concetti in lingua straniera, e sia ai burocrati che per scrivere una legge, una circolare, in italianissima lingua madre rendendo incomprensibile anche la punteggiatura… smettete di violentare i nostri neuroni. Lasciate in pace le nostre sinapsi. Scrivete in modo chiaro e comprensibile per tutti. Parlate semplificando, cosa che mi rendo conto non è cosa per tutti. Smettete di esprimervi per sigle.

La contaminazione grammaticale è inevitabile, ma gli azzeccagarbugli non ci piacciono, qualunque lingua parlino. La liquidità del mondo ha accorciato le distanze, e ha portato la lingua commerciale a diventare lingua di scambio in ogni dove. Il punto non è questo. Il punto è essere capaci di fare il proprio lavoro. La competenza non è saper esibire i termini, ma fornire i contenuti che stanno dietro l’obiettivo di quei termini.

Quindi, d’ora in poi, quando risponderò ad una mail di lavoro in cui devo fornire il “ped” (che sembra inglese ma non lo è), ovvero il timone, la sequenza del lavoro per quella settimana, probabilmente scriverò “timone”, non per nostalgia, ma perché so riempire di contenuti un timone. Dà l’idea di una rotta editoriale da percorrere. Tradotto, ped vuol dire “piano editoriale digitale di un’azienda. Nello specifico, è il documento di pianificazione di contenuti per i social network“. Si può dire diversamente, tecnicamente? Forse sì, forse no. Tra timone e ped cosa cambia? Che il primo veniva usato solo per una comunicazione non aziendale? Che non si adatta ai social? E chi l’ha detto?

Poi c’è un altro modo di impostare il lavoro. Be to C o Be to B. Sono anche accorciati così: B2B e B2C, Spiega google che “Le aziende B2B vendono prodotti e servizi direttamente ad altre aziende, mentre le aziende B2C vendono prodotti e servizi ai consumatori singoli, al cliente che li utilizza per uso personale”.

In altre parole, la prima è business per il business, la seconda è business, affari, per il consumatore.

Semplifica di brutto. Ma il punto è che quando senti parlare del ped B2B ma anche col tono voice B2C, e che poi c’è il piano resident, ma anche il lab, senza che manchi il demo, o che debba esserci il one to one, perché comunicare è importante, beh, ti arrendi. Sembri la fotocopia del milanese imbruttito che parla.

E’ così, Stefy, ti dicono, il linguaggio appreso nei corsi di marketing è questo. Se non lo parli anche tu sei fuori. Onestamente non vedo differenze tra il grigio e improponibile burocratese con cui si stendono inaccessibili concetti regolamentari di leggi, circolari e questa modalità nella lingua degli acronimi e delle definizioni in altre lingue perché “quel concetto lo puoi esprimere solo così”. Solo così nelle loro teste. Credo che sia Shakespeare che Leopardi avrebbero parlato di violenza sulla lingua.

Caro Rampelli, forse serve una legge per far usare meglio i neuroni. Perché siamo ancora al piano zero del linguaggio: verbi, congiunzioni in italiano… Ecco, iniziamo a verificare le competenze del tipo “l’italiano per tutti”. Anche ai politici. Perché a sentire come parlano o scrivono ce n’è da dire.

Scommetto che saper parlare e scrivere l’italiano renderebbe di immediata comprensione anche il prendere in prestito concetti abbreviati in lingua straniera. Perché molti, troppi, sono ancora stranieri con l’italiano di casa nostra.

Stefania Piazzo

Stefania Piazzo è una boomer del 1964, è giornalista professionista. Ha diretto diverse testate nazionali. Ha una profonda passione per gli animali. Educatore cinofilo, collabora con la Federazione nazionale dell'Ordine dei veterinari, ha fatto parte della prima task force del ministero della Salute per il benessere animale. Premio Oipa-Segretariato sociale Rai-Comune Roma, Premio internazionale San Rocco di Camogli, Premio San Francesco Comune Genova-Esercito Italiano, Premio Garante Comune Milano e altri riconoscimenti. Ha collaborato con l'Izs di Lombardia-E.R, Centro di referenza per i metodi alternativi. Ha due beagle e un gatto.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Articoli recenti